Una recente sentenza della Corte Suprema stabilisce l’immunità da procedimenti penali per atti compiuti sotto l’autorità costituzionale
di Simone Maria Sepe
C’è un’importante sentenza recente della Corte Suprema che ha fatto discutere e che probabilmente non è stata ben interpretata su questo lato dell’Atlantico. E per questo merita di essere meglio analizzata. Nel caso “Trump contro gli Stati Uniti”, i nove giudici americani hanno sancito il 1° luglio l’immunità del Presidente degli Stati Uniti da procedimenti penali per atti compiuti durante la Presidenza, purché tali atti rientrino nell’ambito della sua esclusiva autorità costituzionale. La stampa, soprattutto quella europea, ha letto questa decisione come un gesto politico della maggioranza dei giudici conservatori in soccorso dell’ex-presidente Trump. È legittimo credere che i sei giudici si siano prestati – si perdoni la metafora– a una sentenza di scambio?
Vediamo chi sono. Il presidente della Corte dal 2005, John Roberts, estensore della motivazione di maggioranza, è il più centrista ed equilibrato dei nove giudici; è da sempre esponente di un formalismo giuridico come argine all’attivismo politico del potere giudiziario. Samuel Alito, erede morale dell’acutissimo ed eccentrico Antonin Scalia, è su posizioni analoghe. Brett Kavanaugh ha la stessa visione giuridica, ma con un piglio più pragmatico. Clarence Thomas, silenzioso e profondo, afroamericano, originalista (interpretare la Carta secondo l’intenzione degli estensori) particolarmente attento alla questione dell’ingerenza del governo federale nelle questioni statali. Neil Gorsuch, interprete moderno del diritto naturale e allievo di John Finnis, forse il più autorevole esponente vivente del naturalismo giuridico. Infine, Amy Coney Barrett, a metà tra formalismo e naturalismo, particolarmente attenta alle questioni inerenti la libertà religiosa. Questa maggioranza è rappresentativa delle migliori menti giuridiche degli Stati Uniti, come del resto lo sono anche i tre giudici di minoranza: Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Ketanji Brown Jackson.
La Corte Suprema è il “guardiano” dell’ordinamento americano. La nomina dei giudici è politica, anche se filtrata dalla griglia del Senato che deve verificarne, attraverso una serie di audizioni pubbliche, la competenza, la coerenza del pensiero e la compatibilità con l’impianto costituzionale di base. La nomina è a vita per evitare che vi siano interessi diversi dall’essere guardiani, come il desiderio di competere per essere rieletti o di ricollocarsi altrove dopo il mandato.
Si dice che gli Stati Uniti siano la più grande democrazia di sempre. Questo termine riporta il giudizio, il giudizio europeo, a categorie nostre, molte (troppe) di matrice illuministica e razionalistica. Se l’America è la più grande democrazia, allora la valutazione – dicono gli europei – è sui predicati che noi conosciamo per definire la democrazia. Questo è un errore. L’America è una repubblica che è anche una democrazia. E il sistema è eccezionale perché prevede che un organo costituzionale, la Presidenza, sia talmente forte da sembrare incompatibile con l’ideale europeo di democrazia, che teme il potere individuale. Il Presidente degli Stati Uniti – lo si ricorda – può essere destituito solo attraverso una procedura specifica chiamata impeachment, una misura straordinaria di competenza del Congresso e, proprio perché straordinaria, di difficile attuazione.
I fatti specifici che hanno portato al riconoscimento di questa immunità presidenziale sono i seguenti: il Presidente (Trump) (1) ha fatto dichiarazioni pubbliche sulla gestione delle elezioni federali; (2) ha comunicato con alti funzionari del Dipartimento di Giustizia riguardo all’indagine sulle frodi elettorali; (3) ha comunicato con funzionari statali sulla gestione delle elezioni federali; (4) ha comunicato con il Vicepresidente (Pence) e con i membri del Congresso sull’esercizio delle loro funzioni riguardo alla certificazione elettorale; e (5) ha autorizzato o diretto altri a organizzare liste di elettori alternative, diverse da quelle ufficialmente certificate, nel tentativo di convincere il Vicepresidente a esercitare la sua autorità secondo i desideri di Trump.
Prescindendo dal merito, se tutto questo sia stato giusto o sbagliato, i fatti in questione ineriscono attività la cui natura è politica e il cui giudizio di opportunità è prevalentemente politico. Dichiarare, comunicare, autorizzare sono, nel contesto di cui ci si occupa, attività che rientrano nella discrezionalità del Presidente. A titolo esemplificativo, e per chiarezza, si immagini che l’istanziazione fattuale di questi tre verbi sia diversa da quella del caso specifico, come dichiarare nel senso di denunciare l’illegittimità della regolazione di un’agenzia federale o statale, comunicare con il Dipartimento di Giustizia circa un’indagine per corruzione, o ancora cercare di convincere il Congresso ad autorizzare la spesa per un intervento militare. Il rischio è che senza immunità ogni dichiarazione, comunicazione e autorizzazione presidenziale potrebbe essere soggetta al controllo giurisdizionale penale. E questo inficerebbe alla radice il fondamento repubblicano che sostiene l’idea di Presidenza negli Stati Uniti.
Dialetticamente, si potrebbe sostenere che la discrezionalità del Presidente di dichiarare, comunicare e autorizzare dovrebbe tuttavia essere sottoposta a un limite. Ma il ragionamento è fallace, perché identificare un limite a tale discrezionalità significherebbe pur sempre sottoporre a controllo penale il dichiarare, il comunicare e l’autorizzare, per capirne la compatibilità con il limite. L a domanda è un’altra: senza questo limite, sarebbe possibile che un Presidente diventi un criminale politico e sovverta, se del caso, il sistema democratico mediante l’abuso di questa immunità? Procediamo con ordine e prendiamo la contestazione più scandalosa dei fatti in questione: ammettiamo che il Vicepresidente Pence, sotto la spinta di Trump, si fosse rifiutato di confermare in Senato il risultato delle elezioni del 2020. La Costituzione non conferisce al Vicepresidente il potere di respingere i voti certificati dagli Stati. Se Pence avesse rifiutato di confermare i risultati, ci sarebbe stata una crisi costituzionale.
Il Congresso, con autorità limitata sulle contestazioni elettorali, sarebbe intervenuto, affrontando un periodo di negoziazioni e conflitti. La questione sarebbe finita in tribunale. Le corti avrebbero dovuto decidere sulla legittimità delle azioni di Pence, riaffermando che il Vicepresidente non può respingere i voti certificati. Le decisioni avrebbero garantito il rispetto della volontà degli elettori e delle certificazioni statali, con la Corte Suprema come ultimo arbitro. Se mai si fosse arrivati a questo, Trump sarebbe morto politicamente, mantenendo il consenso solo dei più scalmanati e non più del 50 percento dei votanti. Questa la tesi che qui si difende: la condizione per la sopravvivenza politica di Trump è stata la presa di coscienza di Pence e l’indipendenza che lo portarono al gran rifiuto – patriottico – di procrastinare la crisi istituzionale, gestita malissimo da Trump e da Rudolph Giuliani.
Gli Stati Uniti sono un grande Paese con istituzioni fortissime e con dei guardiani – i giudici della Corte Suprema – in generale di grandissimo calibro intellettuale e morale. Nessun Presidente capriccioso e nessuna immunità potranno verosimilmente portare al collasso democratico. Chi pensa il contrario probabilmente dà troppo peso alla storia delle fragilità europee e dei loro localismi.
Professore ordinario – University of Toronto
fonte: AVVENIRE
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