Perché cantare l’Alleluja pasquale in questa valle di lacrime?

Kiko Argüello, La tomba vuota.

 

di Salvatore Stano

Don Filippo Morlacchi, responsabile formazione casa “Filia Sion” (Jerusalem) presso la diocesi di Roma, ha scritto, recentemente, sulle pagine de l’Osservatore Romano un bell’articolo sulla verità dellalleluja pasquale. Oggi è ancora possibile per il cristiano gioire “nella pienezza della gioia pasquale” dinanzi a un mondo intriso di omicidio, violenza, divisione, impurità…?

Durante i cinquanta giorni tra la veglia pasquale e la Pentecoste il prefazio ci invita quotidianamente a vivere la gioia della risurrezione: «Nella pienezza della gioia pasquale, l’umanità esulta su tutta la terra…»

Una gioia universale, che dovrebbe coinvolgere lumanità intera, su tutta la terra.

«Rallegratevi ed esultate», ci esortava Papa Francesco poco più di tre anni or sono, citando le parole di Gesù rivolte «a coloro che sono perseguitati e umiliati a causa sua» (Mt5,12; Gaudete et exsultate,1).

Tutta la liturgia è un invito costante a fare festa: dallExsultet della grande veglia al canto del Regina caeli. Ci si può chiedere se in tutto ciò non si nasconda troppa retorica.

Cos’è questa “pienezza della gioia” di cui canta il prefazio?

Quanta gioia è possibile davvero sperimentare “in questa valle di lacrime”?

Qual è la felicità a cui possiamo realisticamente aspirare nelle contraddizioni della vita?

L’umanità che dovrebbe esultare su tutta la terra è ancora ferita e sofferente. Le catastrofi naturali continuano ad accadere, e per intere popolazioni le carestie non sono un ricordo del passato. Le guerre ricominciano sempre, nonostante l’impegno di tanti costruttori di pace.

Gli incidenti sulle strade accadono e i matrimoni falliscono. Il male non si stanca di azzannare la carne dei più deboli, nelle forme più diverse, ma non risparmia neppure ricchi e i potenti. È possibile, è lecito gioire inqueste condizioni?

Non si tratta di una gioia fasulla, forzata, o che al massimo riguarda solo pochi momenti della vita o un ristretto numero di fortunati? La gioia cristiana esiste, ed è autentica.

Ne abbiamo bisogno proprio per affrontare gli impegni e le fatiche della vita, come insegnava alle sue suore santa Teresa di Calcutta. Ma non è una gioia eccessiva, sfrontata, aggressiva. Non sollecita manifestazioni euforiche e intemperanti. Si manifesta nella luce degli occhi, ma sgorga e rimane nellintimo. È gioia incontenibile, ma misurata.

È ebbrezza sobria e spirituale. È una felicità visibile, ma mai ostentata. Non suscita linvidia dei sofferenti: piuttosto, li consola e li contagia.

La gioia cristiana non è cieca davanti ai dolori della vita. Non è ottimismo cocciuto e ottuso, né volontaria autoillusione. Non si accontenta di un banale think pink” (pensa positivo) dinanzi al persistente male di vivere.

Lo scorso anno, proprio in questo periodo, abbiamo sentito ripetere come un mantra: andrà tutto bene.  E giù messaggini sui social, conditi di fotografie colorate e melense. Tentativi miseramente falliti di esorcizzare la paura.

Non è andato tutto bene.  Molte persone si sono ammalate e molte sono morte. Moltissime hanno subìto pesantissimi danni economici. E non è ancora finita. I mali del mondo non sono solo la pandemia. Eppure tutto questo non intacca la vera gioia cristiana.

Possiamo, dobbiamo continuare ad intonare lalleluia pasquale. Perché, come cantava Leonard Cohen, «love is not a victory march: its a cold and its a broken Halleluija (l’amore non è una marcia di vittoria È un freddo ed uno stonato Hallelujah».

Lesultanza pasquale è figlia dellamore, e lamore, quello vero, non è una marcia trionfale. Almeno, non ancora. Lamore è impastato di felicità e di sacrificio, insieme, inscindibilmente.

Il tempo della storia è ancora il tempo di un alleluia spesso freddo e spezzato. Un alleluia fermamente voluto, consapevole, ferito dalle prove della vita e tuttavia pieno di fiducia perché animato da una speranza invincibile. Perché è un filo teso tra la certezza storica della risurrezione di Gesù e lattesa escatologica della nostra risurrezione.

La gioia cristiana si radica nel giàdellevento pasquale la tomba vuota e si protende verso il non ancoradelle Nozze dellAgnello.

Quella tomba vuota è profezia della Gerusalemme celeste, quando finalmente «all shall will be well, and all manner of thing shall be well (tutto sarà bene e ogni sorta di cosa sarà per il bene)», come Giuliana di Norwich sentì dirsi dal Signore Gesù.

Sì, ancora non va tutto bene, ma la gioia cristiana non è un sogno per gente illusa. Siamo nella mano di Dio. Sempre. «Gioisce il mio cuore ed esulta la mia anima: perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro» (Sal 15). Ecco la fonte della vera gioia pasquale, da vivere in pienezza.

Questa certezza di fede rende possibile e lecito cantare lalleluia, anche nei chiaroscuri del presente. Anzi: non solo lecito, ma «cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza».

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