In «Quando tornerò» Balzano dà voce a chi abbandona e a chi viene abbandonato
di Enrica Riera
Nel 2016 il «Foundling Museum» di Londra ha realizzato una mostra sugli orfani della letteratura europea e della tradizione popolare, raccogliendo i lavori degli illustratori degli ultimi trecento anni. Il museo — dedicato al Foundling Hospital e cioè al primo ricovero per bambini abbandonati del Regno Unito — ha dunque ricordato, attraverso disegni e bozzetti, Tom Jones di Henry Fielding, Oliver Twist di Charles Dickens, i trovatelli di Roald Dahl, fino ai personaggi della contemporaneità, tra cui Harry Potter di J.K. Rowling. All’interno della rassegna d’immagini tuttavia — non per negligenza o dimenticanza, bensì a causa della scarsità di documenti che ne raccontino la sorte — non c’erano loro: gli «orfani bianchi». E cioè bambini e adolescenti costretti a crescere con uno o entrambi i genitori che lavorano all’estero.
Il fenomeno caratterizza principalmente i figli delle donne dell’Est Europa, nel momento in cui queste ultime migrano per necessità, alla ricerca di un lavoro — spesso non incline con gli studi compiuti e con le proprie aspirazioni — come quello di badante, tata o collaboratrice domestica. Secondo l’Unicef, nella sola Romania, sono circa 350 mila i lasciati indietro. Lasciati per l’appunto indietro dalle famiglie. E da tutti gli altri.
È pertanto significativo quanto Marco Balzano fa nel suo ultimo libro. In Quando tornerò (Torino, Einaudi, 2021, pagine 208, euro 18,50), l’autore dà finalmente voce ad Angelica e Manuel, gli abbandonati, nella stessa misura in cui la dà a Daniela, colei che abbandona. Il romanzo si apre con la fuga — notturna, clandestina — di questa donna che, alla soglia dei cinquant’anni, da Rădeni, Romania, si trasferisce a Milano, senza il marito sfaccendato Felip e senza i suoi due ragazzi. Poi l’opera prosegue, tenendo conto delle ragioni di tutti, considerando punti di vista e prospettive differenti.
In particolare, l’obiettivo di Daniela è trovare un impiego e riuscire a racimolare una somma di denaro adeguata a garantire un futuro alla sua famiglia («Io voglio che viviate le stesse possibilità degli altri») ma il piano funziona a metà: la donna trova un’occupazione (si prenderà cura di anziani e bambini), sebbene i figli Angelica e Manuel, a chilometri di distanza, non ne comprendano gli sforzi e inizino quasi a odiarla.
C’è un dialogo tra i due fratelli (i quali canalizzano la rabbia per la partenza del genitore in modi opposti) che suona così: «“Scusa Angi, ma perché nel giorno in cui siamo diventati orfani stiamo andando a scuola?” “Oh! Non è mica finita sotto un treno!”. “Be’, la vedremo una volta all’anno, mi sa che un po’ morta è”».
I figli soffrono terribilmente la solitudine derivante dall’assenza della madre: se per Daniela l’andar via è un fatto necessario al progresso dei figli, ad Angelica, che comunque si fa forza coi libri, pesa il carico di responsabilità che deve assumersi in base a una scelta che non è sua, e a Manuel manca una figura fondamentale per il percorso di crescita ed educazione.
Ebbene, Marco Balzano, nel chiedersi se si possa continuare a essere madri e figli a distanza, non giudica né punta il dito contro i suoi personaggi.
Restare o partire? Consentire ad Angelica di frequentare l’università o aiutare Manuel a sentirsi amato? Qui non si discute, parafrasando Ermanno Olmi, sul dubbio secondo cui tutti i libri del mondo valgano più o meno di un caffè con un amico: il lettore non può rispondere a tali interrogativi se non vive queste stesse condizioni; però può prendere atto — anzi, lo deve sapere — che dietro alle badanti dell’Est (guardate perlopiù con ostilità nonostante accudiscano i più fragili) e dietro ai loro cari ci siano drammi profondissimi.
La «Sindrome italiana» (o «Mal d’Italia») — studiata per la prima volta nel 2005 dagli psichiatri ucraini Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych — è la depressione conseguente a questo tipo di migrazione transnazionale. Le donne — che, lavorando in terre straniere, concretizzano la possibilità di far studiare i figli, ma ne pagano un prezzo altissimo sul piano affettivo — non sanno più chi sono o a quale comunità appartengano, con fatica devono riaffermare la propria identità, tornare a essere persone, non mere fonti reddituali.
Analogo disagio è subito dai figli, i quali soltanto nel più fortunato dei casi vengono affidati a un parente: molti di loro rimangono totalmente soli, altri entrano in freddi istituti; e ciò determina suicidi, tensioni psicologiche, problemi relazionali. Manuel, in Quando tornerò, ne è la dimostrazione: dell’incidente sul motorino che lo vede protagonista, Daniela non vuole approfondire le dinamiche (lo avrà dolosamente provocato?) per non amplificare il senso di colpa che prova verso se stessa.
La lacerazione della famiglia, quindi. Ma pure la femminilizzazione della migrazione, la piaga del lavoro nero, il razzismo latente o manifesto, la vecchiaia davanti a cui i più si dimostrano insensibili, le radici e il distacco — tema già presente nel precedente Resto qui (Einaudi, 2018) — sono gli spunti che emergono leggendo le pagine di Balzano. Pagine che non possono non far riflettere, specie quando s’affronta la centrale condizione dei minori — schiacciati dal silenzio e dagli incolmabili vuoti, che non s’annientano con l’uso di un Iphone.
È vero, «gli orfani bianchi» meriterebbero calore, sguardi, rispetto. Meriterebbero attenzione, oltre che nei romanzi o alle mostre d’arte, sui tavoli delle istituzioni locali ed europee.
fonte: L’Osservatore Romano
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