Una riflessione del teologo don Pino Lorizio, della Pontificia Univresità Lateranense, a partire dal caos-cimiteri registrato a Roma (ma non solo)
di Pino Lorizio
Da decenni abbiamo pensato la morte rilevandone la rimozione dalla società occidentale e al tempo stesso denunciando comportamenti necrofili in alcune rappresentazioni mediatiche (cf G. Lorizio, Mistero della morte come mistero dell’ uomo, Dehoniane 1981).
Nella tragedia che stiamo vivendo, la cupa signora di Samarcanda irrompe non solo con l’ incubo della colonnina nera che segnala il numero giornaliero dei decessi, ma anche mostrando la nostra incapacità ad accompagnare i defunti.
All’ immagine toccante e sconvolgente dei camion militari che trasportavano feretri si aggiunge quella della fila di bare o di urne cinerarie che attendono la sepoltura o la tumulazione non da giorni, ma da mesi, nei cimiteri romani.
Ancora una volta la pandemia ha una valenza rivelativa, in quanto, acuendoli, mette in luce drammi e problematiche preesistenti. Essendo stata coinvolta in questa tragica esperienza la famiglia di un parlamentare, sui media è esplosa la denuncia che riguarda non poche situazioni, credo non solo romane.
Perché dobbiamo preoccuparci dei morti e della loro sepoltura, in un momento così critico per i vivi?
In primo luogo, si tratta della custodia della memoria. Ricordiamo che Napoleone (di cui ricorrono il 5 maggio i duecento anni dalla morte) con l’ editto di Saint Cloud aveva inteso regolamentare le sepolture, prescrivendo tombe fuori dei centri abitati, prive di iscrizioni ed uguali per tutti (esasperazione della livella, ma lì almeno il povero Gennaro netturbino può essere riconosciuto col suo nome, non altisonante come quello del nobile marchese, ma segnato sulla sua tomba).
La circostanza ispirò uno dei capolavori della letteratura italiana I sepolcri, che denunciava proprio l’ indifferenza (mancanza di riconoscimento) e il rischio della perdita della memoria che una tale prescrizione finiva con l’ imporre. E questo non riguarda solo le grandi figure, le cui urne “a egregie cose il forte animo accendono”, ma ogni caro estinto, di cui il poeta parla in questi versi
“Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi? Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi […]”
Non è questo il caso odierno, ma questo ammasso di bare e di urne impone una riflessione teologica sulla morte dei nostri cari, in quanto è in gioco proprio l’elaborazione del lutto, che va accompagnata e vissuta senza aggiungere nuovo trauma a quello già sperimentato nella perdita della persona amata.
Ma, se questo è un diritto inalienabile di chi è sopravvissuto, in gioco vi è qualcosa di ancora più profondo e oserei dire che riguarda il diritto del defunto.
La sciatteria e la mancanza di una politica seria della sepoltura si determina a partire dal fatto che il corpo umano, non solo il cadavere, tende sempre più, nella cultura diffusa, ad essere considerato come un “oggetto”, una cosa fra le altre, nel caso del defunto una macchina che non funziona più e il cimitero diventa come la grande officina di uno sfasciacarrozze.
Una seria riflessione sulla corporeità, che molto deve alla fede cristiana, chiede che pensiamo il corpo della persona umana come “soggetto”. La reificazione del corpo coincide con quella della stessa persona.
E questo sia quando vive una vita sana, sia quando vive la fragilità della malattia, sia quando muore. Non ho un corpo, ma sono il mio corpo, né posso pensare me stesso e gli altri al di fuori della mia corporeità. Neppure posso instaurare un rapporto con Dio prescindendo dal corpo che sono.
In questo senso la fede cristiana ha a che fare proprio col corpo di Cristo, della Chiesa, di ciascuno di noi e la resurrezione riguarda proprio la nostra corporeità, come ha riguardato quella di Gesù di Nazareth.
Di qui l’ attenzione anche liturgica al corpo dei defunti, che nel rito delle esequie vengono incensati, mentre ci si congeda da loro. La nostra fede non riguarda innanzitutto l’ immortalità dell’ anima, alla cui affermazione era arrivata la filosofia greca, ma la resurrezione della carne (come recita il Simbolo apostolico).
Attraverso questa visione dell’ uomo il Cristianesimo interpella la società civile e la politica, proprio rivendicando la soggettività del corpo umano, da cui segue l’ assoluto rispetto della vita dal suo sorgere al suo tramontare, essendo Dio il Signore della vita e della morte, che non ci ha rinchiusi in un involucro, di cui possiamo disporre a nostro piacimento, ma che ci ha identificato donandoci il corpo che ciascuno di noi è e chiamandoci per nome.
Una volta che questa crisi delle sepolture sarà risolta (speriamo al più presto) rimane comunque il compito culturale e politico che ci chiama ad insistere su quello che già la Chiesa italiana a Firenze (2015) e ora alcune forze politiche denominano il “nuovo umanesimo”.
Fonte: Famiglia Cristiana
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