Le persone con un disturbo borderline “soffrono tantissimo, si sentono estremamente indegne di stare al mondo e questo le porta a vivere le emozioni in modo esponenziale”
di Rachele Bombace
ROMA – “Il disturbo borderline di personalità è in forte aumento, ma è un trend che prosegue così da qualche anno, indipendentemente dalla pandemia. Si manifesta in genere in età adolescenziale ed è caratterizzato, a livello sintomatico, da attacchi al corpo come tagli sulle gambe e sulle braccia. Alla base c’è un’incapacità nel regolare le proprie emozioni”. A soffrirne di più sono le donne: “In passato la prevalenza era di 90 donne e 10 uomini, ora è cresciuta nel genere maschile ma si attesta sempre su 70 a 30”. A tracciarne una fotografia alla Dire è Carlo Arrigone, psicoanalista e cofondatore dei Centri Snodi per il trattamento del disturbo borderline di personalità.
“Probabilmente nelle donne questo disturbo è più diffuso perché vivono la loro emotività con molta più intensità”, aggiunge. Ci sono poi correlati collegati al contesto sociale: “Spesso sono donne che hanno avuto traumi e moltissime di queste persone sono ragazze adottive o, ancora, donne che in adolescenza sono state abusate”.
Le persone con un disturbo borderline “soffrono tantissimo, si sentono estremamente indegne di stare al mondo e questo le porta a vivere le emozioni in modo esponenziale. Ciò che per noi è normale, loro lo vivono e agiscono come un qualcosa di enorme. Ci sono continui sbalzi di umore, sembrano in balia di un ottovolante, e questo continuo cambiamento dello stato dell’umore fa sì che non riescano a regolare le forme dei loro rapporti: si avvicinano moltissimo alle persone, quasi in un rapporto fusionale, ma dopo pochi minuti sono attanagliate dal pensiero di essere indegne di stare al mondo, manifestando sintomi sgradevoli socialmente, dall’uso di sostanze, ai tagli, a una sessualità promiscua. Tutto questo la società lo giudica male”.
Per aiutarle si “deve partire dalla conoscenza delle emozioni e imparare poi a gestirle. C’è tanta vergogna- ammette l’esperto- è un ‘Mi vergogno di quel che sono. Quello che faccio è il riflesso di quello che io penso di essere’”.
Dal disturbo borderline di personalità però si può uscire. “All’ospedale San Raffaele di Milano da 11 anni applicano il metodo GET: Gruppi Esperienziali Terapeutici, dove i pari si aiutano tra di loro e si specchiano gli uni con gli altri“. Il San Raffaele “fa molta ricerca e documenta i risultati che produce- puntualizza lo psicoanalista- e con questo approccio hanno raggiunto percentuali di successo del 79%. Abbiamo così deciso di coinvolgere lo psichiatra responsabile del metodo all’interno della nostra comunità, per applicarlo: sono 4 gruppi la settimana di psicoterapia e ogni gruppo tratta una tematica precisa”.
I temi individuati corrispondono agli aspetti gravi del disturbo: “Un gruppo lavora sul corpo, poiché chi ha un disturbo borderline ha una conoscenza limitata del vissuto del proprio corpo e, quindi, ne fa un uso distorto; un gruppo è sull’alfabetizzazione emotiva. Attraverso la visione di scene tratte da alcuni film, i partecipanti, con carta e penna, descrivono le emozioni che riescono ad avvertire nei protagonisti. Generalmente le emozioni che vivono sono rabbia, paura e vergogna. Teoricamente anche la gioia- sottolinea Arrigone- ma chi soffre di questo disturbo non sa davvero cosa sia la gioia, il sentirsi bene. Poi c’è un gruppo che lavora sulle ‘crisi’, ovvero su quegli agiti improvvisi di varia natura, dal taglio alla fuga da scuola. Tutti momenti in cui la loro impulsività improvvisamente esplode e il gruppo di crisi serve per capire cosa accade quando avvengono questi agiti e, sempre con carta e penna, si cerca di comprenderli perché non si tratta di un qualcosa di così improvviso come sembra”. L’ultimo è il gruppo per la pianificazione: “Come affrontano quelle situazioni che invece vorrebbero evitare, quei momenti percepiti come sgradevoli o pericolosi? Perché è frequentissimo l’evitamento in queste persone, così si studiano le strategie che si potrebbero mettere in campo per affrontare ogni situazione ritenuta difficile, una fra tutte le interrogazioni”.
In totale il percorso dura tre anni ed è diviso in due periodi di un anno e mezzo ciascuno. “Alla fine del primo anno e mezzo tutte le situazioni più gravi scompaiono. La patologia diventa una normale ‘nevrosi’- rassicura Arrigone- sembra una contraddizione in termini, ma la seconda parte del trattamento affronta i residui un po’ più nevrotici e il risultato finale sono le persone guarite”.
fonte: Agenzia Dire
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